4a Divisione Alpina Cuneense  
Campagna di Russia

Il Processo d'Onofrio.
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fregio

 

 


(Riproduzione della pagina 16 del numero unico «Russia»)

manifesto

(Riproduzione della pagina 7 del numero unico «Russia»)

EDOARDO D'ONOFRIO

D'Onofrio durante la sua permanenza nei campi di concentramento di Oranki e di Skit:
1) assistito dal FIAMMENGHI e alla presenza di un Ufficiale dell'N.K.V.D. ha sottoposto ad estenuanti interrogatori dei prigionieri italiani detenuti in quei campi;

2) non si trattava di semplici conversazioni politiche, come ipocritamente il D’ONOFRIO vorrebbe far credere, ma di veri e propri interrogatori di carattere politico che spesso duravano delle ore e durante i quali veniva messo a verbale quanto il prigioniero rispondeva;

3) immediatamente dopo la visita di D'Onofrio in quei campì alcuni dei prigionieri italiani che in quei giorni erano stati sottoposti ad interrogatorio furono allontanati e rinchiusi in campi di punizione e ancora oggi alcuni sono trattenuti nei campi di concentramento di Kiev;

4) simili procedimenti avevano il duplice scopo di far crollare prima con lusinghe e poi con esplicite minacce (non ritornerete a casa; lei non conosce la Siberia? allusioni alla famiglia, carcere e simili) la resistenza fisica e morale di questi uomini ridotti dalla fame, dalle malattie, dai maltrattamenti a cadaveri viventi e guadagnare l’adesione degli altri prigionieri intimoriti dall’esempio della sorte toccata a questi.

DOMENICO DAL TOSO - LUIGI AVALLI - IVO EMETT - ecc


 

IL PROCESSO

Aveva scritto D'Onofrio: «I russi rispettavano come prigionieri di guerra i soldati italiani, non li fucilavano, né li facevano a pezzetti, anche se in camicia nera». «Non è vero!». Rispondeva Giannetto Palmas e a dimostrazione citava un episodio di cui era stato testimone oculare il 19 gennaio del 1943 a Valuikj: «Dei 45 uomini del comando del 61° Autogruppo, all'arrivo nel paese delle orde cosacche solo una decina riuscirono a sganciarsi e a ritirarsi su Karkoff. Trenta, fra cui il maggiore comandante il Gruppo, furono catturati dai cosacchi, quindi spogliati e fucilati presso i loro automezzi.... Ricordo ancora che durante le marce verso i campi di smistamento, il 26 gennaio 1943 (35° sotto zero), un maggiore, già derubato degli indumenti invernali, per non aver ubbidito immediatamente all'ordine di consegnare le mutande che indossava, fu spogliato, bastonato a morte e finito con una raffica di mitra... E che dire poi del sistema abituale della scorta che sparava su tutti quelli che, sfiniti dalla fatica e dalla fame, non avevano la forza di proseguire il cammino, o su quelli che si allontanavano dalle file in cerca di cibo o che si avvicinavano ai pozzi per bere?».

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«Intollerabile beffa»

Allora (ed eravamo alla fine del 1942) potevamo ancora dichiarare «la buona accoglienza e il trattamento fattoci da parte dell’autorità russa e dai medici russi» in quantochè solo un tenente cappellano e quattro graduati infermieri erano stati fucilati (20-21 dicembre 1942) e lo strumentario chirurgico e i medicinali non ci erano stati ancora sottratti».
«... È noto che molti feriti durante la precipitosa ritirata furono abbandonati a Kantemirovka ma non è a tutti noto che alcuni medici e soldati di sanità restarono volontariamente accanto ai feriti affrontando la prigionia. Al cap. med. Mulazzi gravemente ammalato di tifo addominale, fu fatta firmare la dichiarazione in stato di incoscienza e delirio; dopo qualche settimana, convalescente del tifo, decedette in cachessia..... A sua volta il ten. Pastore decedette in altro campo dopo lunghe marce di trasferimento nonostante le ferite non si fossero ancora rimarginate.... L’elenco dei ricoverati, l’elenco dei morti e il registro operatorio mi furono sottratti dalle autorità russe».

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La missione di un ufficiale medico

L’ultima parola al ten. Pugliese il quale al D'Onofrio che lo accusava di essere «proditoriamente entrato in casa sovietica da ladro e da brigante» rispondeva che «... quando facevo esporre fuori dell’infermeria la bandiera della CRI era un accorrere di gente che veniva a far medicare le proprie piaghe, a chiedere medicine e farsi visitare. Molte volte mi sono allontanato dal reparto per recarmi in qualche isba spersa nella steppa a visitare qualche civile gravemente ammalato. Questa mia opera mi valse il soprannome di «umanitario».
E concludeva: «Ma ora voglia essere cosi gentile da togliermi una curiosità: perché i russi si affannavano ad estorcere dichiarazioni ed attestati «di benemerenza?». Forse erano consci di essere in difetto e volevano crearsi una documentazione che li scagionasse? Perché quell'attestato di benemerenza come molti altri del genere, rilasciato alle autorità sovietiche e raccolto da ufficiali russi nel 1942 a Kantemirovka si trova ora in mano sua? Forse lei è stato nominato avvocato difensore dello Stato sovietico?».
Ma questi interrogativi rimasero senza risposta.
Qualche giorno più tardi usciva il numero unico «Russia» e il sen. Edoardo D'Onofrio si querelava

I PROTAGONISTI DEL PROCESSO

Tribunale penale di Roma - Sez. X(1) - Aula della 1a Sezione della Corte d'Assise.

Presidente del Collegio:(2)

DOTT. VINCENZO CARPANZANO

Pubblico Ministero:(3)

DOTT. PIETRO MANCA


I COMUNISTI:

 

Querelante:(4)

SEN. EDOARDO D'ONOFRIO

Rappresentanti della Parte Civile:(5)

Avv. MARIO PAONE
Avv. PROF. GIUSEPPE SOTGIU


I REDUCI DI RUSSIA:

 

Imputati:

UGO GRAIONI, direttore
GIORGIO PITTALUGA, redattore responsabile
IVO EMETT
DOMENICO DAL TOSO
LUIGI AVALLI

Collegio di difesa:

Avv. MASTINO DEL RIO
Avv. RINALDO TADDEI

 

Imputazione:

Diffamazione a mezzo stampa di cui agli art. 595 cod. pen. e 13 l. 8 febbraio 1948 n. 47.

Foglio incriminato:

«Russia», numero unico, aprile 1948, edito a cura dell’U. N. I. R. R. (Associazione Nazionale Italiana Reduci di Russia)

«ENTRA IL TRIBUNALE»


Palazzo di Giustizia di Roma - Lunedì 16 maggio 1949. - La tragedia dei nostri soldati in Russia aveva bisogno di una cornice più vasta che non fosse la solita, piccola aula dove quotidianamente i magistrati amministrano giustizia. Per questo, forse, è stato deciso che il giudizio si tenga nell’aula della 1a Sezione della Corte d'Assise; la stessa, per la cronaca, nella quale per sette mesi si svolse il processo a carico dell’ex Maresciallo d'Italia, Rodolfo Graziani.
Ore 9,10 precise: entra il tribunale. Tutti gli imputati sono presenti al loro banco. D'Onofrio, invece, siede ad un tavolo situato al centro del pretorio. La parte dell'aula riservata al pubblico è affollatissima. Curiosità? No! Non è la morbosa curiosità che porta le folle sotto le gabbie e i plotoni di esecuzione. Sono reduci che vogliono rivivere le sofferenze trascorse, attraverso il racconto, che qui dentro si andrà facendo, della loro triste odissea; sono soldati che sperano di ritrovare il commilitone perduto; sono spose, madri, sorelle, fidanzate, amici di chi non è più tornato; è una folla sulla quale il tempo è passato senza riuscire a lenire dolori e sofferenze. È l'Italia che piange ì suoi figli perduti e si erge severa e solenne contro i traditori della patria e della civiltà.

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«L’udienza è aperta»


Breve e precisa, la messa a punto del «responsabile» del numero unico «Russia», Giorgio Pittaluga, dà il via al dibattito, dopo che il Presidente ha dichiaralo aperta l'udienza. Egli permise la pubblicazione dell’articolo riguardante il sen. D'Onofrio perché ebbe assicurazione dagli autori stessi che tutti i fatti specificati nello scritto erano perfettamente rispondenti alla realtà. Si trattava di un riferimento obiettivo senza alcuna intenzione diffamatoria, fatto col puro e semplice animus narrandi.
Ugo Graioni, il direttore del numero unico, ne dà conferma aggiungendo che molti reduci dalla Russia con i quali ebbe occasione di parlare gli ribadirono l'esattezza dei fatti riassunti nello scritto.
Il primo a narrare quello che accadde ai nostri soldati è l'imputato Domenico Dal Toso, tenente del IV artiglieria alpina della Divisione Cuneense, caduto prigioniero nel gennaio del 1943, trasferito al campo di Krinovaia con una lunga, estenuante marcia forzata.
Dal Toso: — «Partimmo in tremila, arrivammo in millecinquecento. Ci nutrivamo di semi di girasole. Avevamo avuto come viveri per il viaggio, soltanto un filone di pane da 500 grammi. Giunti nel campo di Krinovaia venimmo distribuiti a seconda del rango, in alcuni box simili a quelli dove, nelle scuderie, si rinchiudono i cavalli: in ognuno dei quali eravamo stipati in ventisei persone. Lo spazio era così limitato che era impossibile perfino sdraiarsi. Vi rimanemmo per quattro giorni, senza acqua, prima che ci fosse acconsentito di attingerne da un pozzo. Ci legavamo le gavette alla cintura e ci si spenzolava giù per poter arrivare fino in fondo. Molti, nel tentativo, caddero nell'acqua ed annegarono. L'acqua s'inquinò e non potemmo più berne.

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«Scene di cannibalismo»


Nel campo, insieme al Dal Toso, si trovava un cappellano militare, padre Turla, il quale era a conoscenza delle tristissime condizioni in cui versavano i prigionieri negli altri campi. Egli disse al Dal Toso che in alcune sezioni riservate ai soldati semplici erano avvenuti addirittura casi di cannibalismo...
— ... Cannibalismo? — interrompe qualcuno nell'aula su cui grava una atmosfera di dolore e di morte.
Dal Toso: — Sì. Cannibalismo. Aspettavano che un commilitone morisse e poi ne mangiavano il cuore ed il fegato.
Un giorno venne al campo un uomo, che dimostrava una quarantina di anni d’età. Nessuno osò domandargli il nome, né lui si preoccupò di dircelo: era un italiano e noi aspettavamo da lui almeno una parola di conforto, in nome di quel vincolo fraterno che dovrebbe unire tutti coloro che sono nati entro gli stessi confini. Rudemente egli ci disse invece che dovevamo ringraziare Dio se ancora non ci avevano fucilato. Più tardi si presentò una commissione russa per trasferire coloro i quali fossero in grado di camminare, in un altro campo di concentramento. L'accertamento per la idoneità consisteva nel fare venti passi davanti alla commissione. Ma tanto era lo sfinimento che molti caddero prima di aver compiuto il percorso di prova.
Il ten. Dal Toso fu tra i prescelti.

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«Carri bestiame»


Dal Toso: — Lasciammo Krinovaia in 400 ufficiali. Giungemmo ad Oranki in 290. Gli altri erano morti durante il trasferimento compiuto nell’interno di carri bestiame e senza alcun cibo. Nel nuovo campo scoppiò una violenta epidemia di tifo petecchiale. Ma non fu dato altro medicamento che del permanganato. Quando fui trasferito al campoconvalescenziario di Skit, pesavo soltanto 39 chili.
Durante la permanenza ad Oranki venne per la prima volta il Fiammenghi il quale tenne numerose conferenze ai prigionieri.
Presidente: — Cosa vi disse in particolare il Fiammenghi?
Dal Toso: — Voleva conoscere la nostra opinione politica. Egli teneva ad informarci che in Italia le cose andavano molto male. Poiché il Fiammenghi fece capire chiaramente che a coloro i quali si fossero dichiarati antifascisti sarebbe stato concesso un miglioramento del rancio, qualcuno aderì alle nuove idee di cui veniva fatta ampia propaganda.
È chiaro che, secondo la prassi del partito bolscevico, per antifascismo doveva intendersi, adesione alle dottrine marxiste. L'imputato narra poi come alla fine di luglio arrivò il signor D'Onofrio, il quale radunò gli ufficiali italiani proponendo loro che sottoscrivessero un appello al popolo italiano di incitamento ad abbattere il governo Badoglio e la monarchia.
In Italia, come è noto, si era verificato il colpo di stato che aveva rovesciato il governo fascista il 25 luglio 1943.
A domanda del presidente, Dal Toso precisa che il signor D'Onofrio, comunista, si qualificò di professione «cospiratore».
Presidente: — Come, come?...
Dal Toso: — Sì, sì, professione «cospiratore». Così ci disse. Egli era accompagnato da un ufficiale della polizia russa. Prima ci parlò a lungo della patria lontana, delle nostre case, delle famiglie, provocando la comprensibile commozione dei presenti. Poi ritornò per farci firmare il famoso appello al popolo. Il cap. Magnani, che era a capo della nostra comunità, rispose a nome di tutti che i soldati e gli ufficiali italiani erano legati da un giuramento al Re e che quindi mai avrebbero potuto firmare un appello del genere. D'Onofrio andò su tutte le furie e la sua reazione fu immediata. Il capitano Magnani fu chiamato dal D'Onofrio ed ebbe con lui, presente un capitano russo, un colloquio durato due ore Al termine di esso il Magnani aveva il viso stravolto. Il giorno successivo veniva trasferito in altro campo e da allora non s’è saputo più nulla di lui se non che fu rinchiuso in un campo di punizione. D'Onofrio aveva detto: «Al capitano Magnani ci penso io».

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«Non rivedrai tua madre!»


Come tutti gli altri anche l'imputato dovette subire un interrogatorio, alla presenza di un ufficiale russo, il quale annotava tutte le risposte, al termine del quale il D'Onofrio lo minacciò di non riveder più sua madre se avesse coltivato certe idee di italianità perché in Russia ognuno era controllato e dalla Russia non era facile tornare indietro... In Russia vi erano regioni ancora più fredde, con chiaro riferimento alla deportazione in Siberia.
La lunga deposizione del primo imputato è finita: Dal Toso ha parlato con voce bassa che tradiva una visibile commozione interiore.

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Infernali campi di concentramento


Subito dopo viene introdotto il secondo reduce querelato. È il tenente di fanteria della divisione Sforzesca, Luigi Avalli, fatto prigioniero nell’agosto 1942 in Russia. È tutto un racconto di sofferenze senza nome che si riassumono nel desiderio più volte espresso dai prigionieri di essere fucilati piuttosto di continuare a vivere in quegli infernali campi di concentramento. Krinovaja - Minciurinsk - Tamboff: nessuno ne parla eppure erano simili e forse anche peggiori di Meidanek - Buchenwald - Mathausen che tutto il mondo conosce! L'imputato narra le pressioni politiche cui i prigionieri erano sottoposti, con le continue conferenze, le domande, gli interrogatori del Fiammenghi e del D'Onofrio, che richiamavano all'ordine chiunque osasse esprimere opinioni sfavorevoli sul regime sovietico.
Con questa deposizione s’è chiusa la prima udienza. L'atmosfera nell’aula è grave, pesante. Il racconto dei reduci ha lasciato in tutti una penosa impressione.
 

Don Enrico Donati, Giuseppe Fanin, il persicetano, ...

Il padre di un disperso in Russia scrive all’on. Togliatti...

 

Milano, lì 9 giugno 1948

On. PALMIRO TOGLIATTI

Camera dei Deputati - Montecitorio
Roma


On. Togliatti,
con tutto il rispetto per tutte le ideologie, con tutto il rispetto per Lei che ho sempre creduto un idealista e di elevata cultura, mi fa veramente pena apprendere dai giornali le discussioni sui prigionieri in Russia, sui nostri figli dei quali non ne sappiamo nulla (ho un unico figlio dato per morto dai suoi Colleghi rientrati); io credo che sarebbe buona cosa che Lei, quale massimo esponente di un esecutivo che dipende dalla Russia, si facesse promotore di una spedizione da Lei capeggiata e composta dai suoi On.li Colleghi Longo, Terracini, Di Vittorio, Pajetta, ecc. e prendere congedo di sei mesi dalla Camera e dal Senato recandovi in Russia ad esperire tutte quelle pratiche che nessuno meglio di Voi, che siete di casa, può fare. Al vostro ritorno, con risultati positivi e veritieri, tutti gli italiani di ogni idea e colore Vi accoglieranno a bandiere spiegate, anche rosse se Vi farà piacere e Vi porteranno in trionfo.
Questo è il V/ dovere, dopo la strada sarà aperta a tutte le discussioni politiche che vorrete.

ALESSANDRO MALERBA di Milano

 

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La risposta del leader del P.C.I.

 

Roma, li 11 giugno 1948

Egregio Signore,
il tono della sua lettera mi fa supporre in Lei la buonafede. Mi rincresce però che questa non le abbia impedito di cadere vittima di una indegna speculazione, ordita sul sentimento di tanti italiani, sia dal governo che dal partito democristiano. Per quello che a me risulta (dallo spoglio della stampa sovietica) il governo sovietico ha pubblicato la lista numerica dei sopravvissuti alla fine della guerra e le date esatte di consegna di tutti i sopravvissuti (con la eccezione credo di una ventina) alle autorità di frontiera anglo-americane. Il Governo italiano aveva il dovere di far riprodurre in Italia questo documento, facendo inoltre conoscere ciò che tutti i competenti sanno, e cioè che è assurdo anche solo pensare alla più lontana possibilità di esistenza di «dispersi sopravvissuti» perché l'equipaggiamento di quei poveri ufficiali e soldati italiani non consentiva la sopravvivenza in quelle condizioni di battaglia e di clima. Questo è il delitto che oggi si sta commettendo; i responsabili diretti del massacro di quei giovani (Messe e gli altri, non esclusi i vescovi e i dirigenti di Azione Cattolica che benedissero la spedizione criminale contro la Russia) si servono del male da essi commesso per seminare odio e discordie tra i popoli e nel nostro popolo.
La mia opinione, del tutto oggettiva e spassionata, è che alle autorità sovietiche nulla è da rimproverarsi. Nelle condizioni in cui erano, hanno fatto quanto dovevano. Purtroppo noi italiani ci troveremmo molto imbarazzati se quelle autorità ci chiedessero conto dei prigionieri russi fatti dalle truppe italiane. Lo sa che non ne è tornato in Russia nemmeno uno? Messe e gli altri generali italiani li consegnavano ai tedeschi che li passavano ai forni crematori. E sono proprio questi generali che oggi strillano e fanno campagne in nome della civiltà. Mi scusi lo sfogo sincero. Cordialmente

PALMIRO TOGLIATTI

Comunicati dell’Ambasciata sovietica a Roma


La lettera veniva resa di pubblica ragione attraverso la pubblicazione fattane dalla rivista Oggi nel numero in data 2 giugno 1948, uscito il 21 s. m. con commento di Arnaldo Cappellini, giornalista, già corrispondente di guerra in Russia al seguito delle truppe italiane.
Della lettera di Togliatti colpiscono prima facie numerose contraddizioni. Le cifre parlano chiaro. I dati ufficiali danno 84.820 dispersi sui 221.000 soldati e 7.000 ufficiali partecipanti alla spedizione italiana in Russia.
L’ambasciata sovietica a Roma nell’agosto 1945 comunicò al nostro Ministero degli Affari Esteri che il suo governo deteneva soltanto 19.640 prigionieri italiani. Gli altri, secondo la ben nota tesi comunista, sarebbero morti nei combattimenti o nella tragica ritirata, non dunque per colpa dei maltrattamenti subiti nei campi di concentramento russi. Poco tempo dopo la stessa ambasciata dichiarava che la Russia avrebbe restituito 21.193 e poi ancora 21.065 prigionieri, in una notificazione diretta all'allora Ministro degli Esteri Pietro Nenni. In realtà i reduci sono soltanto 12.513. Anche a voler prendere per buone le comunicazioni ufficiali del governo bolscevico, si può legittimamente chiedere all'on. Togliatti: e gli altri dove sono? Altro che eccezione di «una ventina...». Lo stesso Togliatti, nel 1943, quando le vicende della guerra lo dispensavano da una immediata documentazione delle sue tirate propagandistiche, parlando da Radio Mosca, assicurava le famiglie italiane che oltre centomila prigionieri erano sani e salvi in mani russe e al termine del conflitto sarebbero tornati liberi alle loro case. Le stesse cose si leggevano pressappoco a pag. 250 del libro «Discorsi agli Italiani» dì Mario Correnti, alias Ercole Ercoli, alias Palmiro Togliatti, pubblicati nello stesso anno per le edizioni in lingue estere a Mosca. Si ricordi inoltre che in corso di causa e risultato che il settimanale comunista «L'Alba», diffuso nei campi di concentramento, aveva annuncialo che il numero dei soldati italiani catturati era di 83.000, secondo i bollettini di guerra sovietici.

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L’equipaggiamento dell’A.R.M.I.R.

Arnaldo Cappellini, nel suo libro «Inchiesta sui dispersi in Russia», edito dall'Istituto Tipografico Editoriale di Milano per la collana «Cronache», a proposito del nostro equipaggiamento e della sua influenza sull'alta percentuale delle perdite, secondo la opinione di parte comunista, scrive:
— L'«equipaggiamento di quei poveri ufficiai e soldati», cioè, che secondo quanto afferma Togliatti, avrebbe avuto parte decisiva, se effettivamente non era perfetto, non doveva però neanche essere pessimo, dato il numero considerevole di uomini che, con quello stesso equipaggiamento, marciando e combattendo, senza poter contare su una organizzazione logistica di retrovia che da parte nostra più non esisteva, sono pur usciti dalle sacche e sono tornati in Italia. Ci sono stati reparti che hanno marciato in queste condizioni per diecine di giorni e per mille e più chilometri, con una percentuale di perdite infinitamente inferiore — qualcuno quasi nulle — a quelle degli ottantamila prigionieri ridotti a circa diecimila. —

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Prigionieri russi in Italia


Riguardo alla sorte dei prigionieri russi in mani italiane, la quale, secondo Togliatti, legittimerebbe una ritorsione contro i nostri prigionieri, la sfacciata menzogna del capo comunista è smentita da innumerevoli e autentiche testimonianze contrarie.
Nell’impossibilità di organizzare campi di concentramento nelle immediate vicinanze del fronte, prigionieri russi furono inviati in zone controllate dai tedeschi, in quanto la stessa 8a armata italiana faceva parte del più vasto schieramento germanico. Ma essi non furono affatto gettati dai nazisti nei forni crematoti, sorte che toccò invece a tanti nostri internati e perseguitati politici, soprattutto dopo l'8 settembre 1943. Tutti gli italiani, durante l'invasione tedesca hanno avuto modo di constatare come prigionieri russi lavoravano al seguito delle truppe teutoniche. Altre volte invece varie centinaia di prigionieri russi, catturati dall’80° reggimento, non raggiunsero i campi di concentramento.
— Disarmati, venivano lasciati andare liberi verso ovest — come ebbe a dichiarare al Cappellini personalmente il col. Chiaramonti — senza scorta, sicché potevano disperdersi per città e villaggi ove si mettevano a lavorare, ben lieti che la guerra per loro fosse finita...
— Infiniti episodi potrei narrare che farebbero ricredere l'on. Togliatti se è in buona fede, circa il modo come il CSIR si comportò in quel periodo veramente epico della campagna, e come mai, nemmeno nelle situazioni più drammatiche, la popolazione commise verso noi italiani il minimo atto di ostilità, appunto in virtù del nostro modo di agire. È penoso oggi dover constatare come un uomo di tanta responsabilità, nel rispondere alla voce angosciata di un padre, non avendo argomenti solidi da far valere, tenti di gettare una manata di fango su questi soldati che altro torto non hanno che quello di non aver derogato alle leggi dell'onore militare. —
Di fronte a certe maligne insinuazioni della stampa di estrema sinistra la «Voce Adriatica» cosi precisava:
— Certo, che, con la fine della nostra Patria, non è stato provveduto dagli italiani alla restituzione dei prigionieri russi. Vi hanno pensato però gli alleati, come hanno fatto per i prigionieri delle altre nazioni. A convalida si può chiedere qualche cosa agli alleati e, per la vicinanza che ne ebbero, agli abitanti della frazione di Palombina Nuova di Ancona, dove è esistito per molto tempo il «Transit Camp» alleato. Per tale campo sono passate decine di migliaia di prigionieri e deportati politici di tutte le razze e colori. I prigionieri russi provenienti al campo citato dai vari concentramenti italiani venivano vestiti e rifocillati in numero di circa 600-700 al giorno. —

Presidente: — Cosa disse ai prigionieri il D'Onofrio?
Bosello: — Ricordo che ci parlò a lungo dell’Italia e della democrazia e noi ne ricavammo una ottima impressione, fummo soddisfatti del modo con il quale egli ci intrattenne per oltre mezz'ora. Ma un paio di giorni dopo D'Onofrio chiamò me ed altri cinque colleghi, fra i quali il cap. Magnani. Appena entrammo nella sua stanza egli chiuse la porta e ci fece sedere. Accanto a lui era il commissario Fiammenghi e il magg. Orloff. E cominciò l’interrogatorio.
Il sottotenente Sandali al quale per primo furono rivolte le domande, si trincerò sul divieto fatto ai militari dal regolamento di esprimere opinioni politiche e chiese che fosse rispettato il suo diritto, come prigioniero di guerra, di non essere interrogato su fatti politici. La secca risposta del Sandali provocò un violento scatto del D'Onofrio il quale urlò nelle orecchie del sottotenente: «È necessario che lei riveda le sue posizioni perché con queste idee in Patria, lei, non ci tornerà mai più». E rivolto a tutti: «Quello che dico a lui vale per tutti i presenti». Fiammenghi e il magg. Orloff prendevano appunti su alcuni fogli di carta.

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«In Italia non si torna»

Avv. Mastino Del Rio: — Le risulta che il cap. Magnani fosse un criminale di guerra?
Bosello: — Il capitano era un uomo d'onore, decorato di tre medaglie d’argento.
Avv. Taddei: — Il teste da che cosa deduce che le risposte fornite durante gli interrogatori venissero verbalizzate?
Bosello: — Nel campo di Susdal fui sottoposto ad un altro interrogatorio. Dalle domande che il commissario politico Rizzoli mi fece, mi accorsi che conosceva già le risposte che avevo dato nei precedenti interrogatori. Mi risulta poi che i fuorusciti italiani erano nient'altro che funzionari sovietici. Infatti al sergente Paolozzi furono inflitti dieci giorni di prigione con la seguente motivazione: «Si rifiutava di rispondere ad un funzionario politico sovietico». Il sergente, durante un interrogatorio, aveva detto al Rizzoli che non avrebbe mai risposto alle domande di «un fuoruscito italiano».

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Tifo petecchiale

 

Parlano i cappellani militari

 

 

 


Un cappuccino, dalla lunga barba ben curata, è il secondo teste della giornata chiamato a deporre: padre Giuseppe Fiora, cappellano dell'8° regg. Alpini, fatto prigioniero nel gennaio 1943.
P. Fiora: — Sento il bisogno di premettere che al campo di Krinovaia, dove venni portato prima di essere trasferito ad Oranki, la fame dei prigionieri era tanta da dar luogo a casi di cannibalismo. Un giorno si presentò a me un soldato italiano il quale, in una gavetta, mi offrì di mangiare con lui il cuore di un commilitone morto: «Padre, vuol mangiare?» mi disse. Mi prodigai con gli altri cappellani prigionieri, anche per invito dei fuorusciti e dei russi, perché quei gravissimi fatti avessero a cessare. Ripetemmo ai prigionieri le assicurazioni fatteci dai fuorusciti di future migliorie. Ma nessun miglioramento si verificò mai, né allora né dopo. La promessa non fu mantenuta.
Durante il viaggio di trasferimento da Krinovaia ad Oranki fu data come razione di viveri ai prigionieri soltanto un pezzo di pane secco e pesce salato. Niente acqua. E quando gli uomini ne chiedevano, le guardie russe rispondevano: «Perché siete venuti a combattere contro di noi? Adesso la pagate!».
Appena arrivati ad Oranki tutti furono infettati di tifo petecchiale. Nessuna assistenza sanitaria fu data ai malati dai sovietici: l'unico a prendersi cura di loro fu il tenente medico italiano Reginato il quale non ha fatto più ritorno dalla Russia. Oltre al tifo altre epidemie scoppiarono nel campo. Fra esse la più grave fu la dissenteria. L'indice di mortalità raggiunse il 90 e anche il 95 per cento dei prigionieri. I malati giacevano su un tavolaccio e a noi cappellani non fu mai consentilo esercitare le nostre funzioni. Per essere ammessi nel lazzaretto dovemmo fare domanda di infermieri. Io però mi ammalai il giorno prima di essere assunto. Appena guarito fui assegnato ad un duro lavoro, quello di segare alberi e trasportarli per dei chilometri.
Ad Oranki, per volere di tutti gli internati, la sera si pregava ad alta voce. Fra le altre recitavamo la preghiera «Pro Rege». Un giorno però io e l'altro cappellano, don Brevi, fummo chiamati dal commissario politico del campo, Fiammenghi, il quale ci proibì di recitare quella preghiera perché il Re era «un venduto allo straniero» e il «capo dei reazionari». Naturalmente abolimmo questa preghiera per il Re.
Questo avveniva verso la fine di maggio del 1943. Dopo qualche mese Fiammenghi ci chiamò nuovamente e ci disse che dovevamo smettere di recitare preghiere perché in Russia non erano ammessi atti di culto esterno. I prigionieri, se lo volevano, potevano pregare privatamente. Chi non si fosse attenuto a questi ordini precisi sarebbe stato punito con il carcere.
Presidente: — Lei ebbe occasione di parlare con D'Onofrio?
P. Fiora: — Personalmente no. Assistetti, però, ad una sua conferenza nel campo di Oranki.
Presidente: — Che cosa disse il querelante?
P. Fiora: — Non lo so perché poco dopo che aveva cominciato a parlare mi addormentai. Seppi, però, dagli ufficiali, al mio risveglio, che l'impressione riportata fu tutt’altro che buona.
Avv. Taddei: — L'intervento dei fuorusciti italiani migliorò le condizioni dei prigionieri?
P. Fiora: — Lei è matto. L'unico nostro sollievo era la fratellanza.
Presidente: — Lei può andare.

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Nessuna libertà di assistenza religiosa

La parte civile ha cercato di smontare il teste prima ancora che cominciasse la sua deposizione, sottoponendogli la famosa circolare, ma l'Alfieri non si è affatto scomposto: ha ammesso senza esitazione di esserne il firmatario e poi ha cominciato a narrare.
Alfieri: — Appena dopo la cattura tutti gli uomini che non erano in grado di camminare furono fucilati, altri soldati furono stritolati, durante la marcia, dai carri armati russi. Arrivati alla stazione di Galash i prigionieri furono fatti salire in treno: vagoni merci dove erano stipati in 72 persone. Viveri per il viaggio: una pagnotta ogni otto persone e sette aringhe salate.
Presidente: — A testa?

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«Qualcuno impazzì per la sete»


Alfieri: — No. Per tutto il vagone e senza un goccio d’acqua. Qualcuno impazzì per la sete. Tentammo di dissetarci prendendo la neve che si era accumulata sul tetto del vagone ma i russi di scorta provvidero subito a spalarla e così non ci rimase altro che leccare i bulloni del vagone dove si era attaccato un po’ di ghiaccio. Almeno dieci persone morirono durante il viaggio. Ma nessuno si interessò di loro. Furono accatastati in un angolo del vagone senza che nessuno si curasse di segnare nemmeno i loro nomi. Alle fermate i cadaveri venivano tirati fuori dai russi e gettati sulla neve.
Arrivammo, quelli che ci riuscirono, a Minciurinsk. Eravamo 5000. Quando ripartimmo dopo una permanenza di due mesi eravamo ridotti a 480.
Presidente: — E gli altri?
Alfieri: — Morti. A Vilna, negli Urali, le condizioni di vita migliorarono un po'. Verso la fine del mese di aprile, una mattina venne da noi un soldato russo addetto alle cucine: «Tovarish Stalin prikasal» ci disse, che vuoi dire, più 0 meno «niente paura, il compagno Stalin ha ordinato di non morire». E distribuì a tutti del burro. La cosa si ripeté tutte le mattine per un mese di seguito: 40 grammi di zucchero e 40 grammi di burro. La nostra sorpresa fu enorme, ci fece sgranare gli occhi e urlare di gioia. Ma tutto ciò non valse a diminuire la mortalità perché dei 480 arrivati ripartimmo di lì, ridotti a poco più della metà: altri 200 prigionieri erano morti.
I superstiti furono trasferiti al campo di Susdal in carri cellulari.

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83.000 prigionieri italiani!


Alfieri: — Esattamente dal primo numero del settimanale «L'Alba», uscito nel febbraio del 1943. In esso si diceva appunto che erano stati catturati 50 mila prigionieri italiani, appartenenti al 2° e al 35° corpo d’armata e 33 mila appartenenti al corpo d’armata alpino.

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«Il bosco della morte»


18 giugno 1949 - Una lettera — che ha costituito un piccolo colpo di scena — è la deposizione di un altro cappellano militare, Padre Turla, sono stati i fatti che hanno caratterizzato questa udienza, e devono avere contrariato non poco il sen. D'Onofrio.
Si è presentato per primo il tenente dei bersaglieri Umberto Puce,
Puce: — La mia prima destinazione, come prigioniero di guerra, fu un bosco nei pressi di Minciulinskin: «il bosco della morte», come lo chiamarono subito i prigionieri. Qui gli italiani furono sistemati in alcune buche seminterrate, senza porta e malamente coperte; non c'era paglia per terra e il cibo era costituito da una zuppa di brodaglia con dentro nove chicchi, contati, di lenticchia, pane nero immangiabile e per bevanda un liquido indefinibile. Arrivammo nel bosco in settemila, ripartimmo tre mesi dopo che eravamo ridotti in cinquecento. Ma già prima di giungere nel bosco i prigionieri erano stati decimati per la lunga marcia, per la debolezza, per la spietatezza delle guardie russe di scorta alle colonne. Il teste ha raccontato che per impadronirsi delle tute mimetiche che due soldati indossavano, quei disgraziati furono fatti uscire dalle file e fucilati; quelli che per una ragione qualsiasi non riuscivano a tenersi nella colonna venivano passati per le armi; abbattuto con due colpi di pistola alla nuca fu un poveretto, che, durante il viaggio in treno, sfondato un finestrino, si era gettato dal convoglio sulla neve per placare la sete.
Al campo di Viliba la situazione subì un leggero miglioramento: c'era acqua in abbondanza e si mangiava un po’ meglio, ma il tifo petecchiale e le altre epidemie continuarono a mietere vittime. Dei 500 arrivati ripartimmo, dopo meno di due mesi, in 300. Nuova destinazione, il campo di Baskaia e poi Susdal.

P. Turla: — Gli italiani non dimenticheranno mai il nome terribile di Krinovaia ed ha aggiunto che in quel campo 27 mila prigionieri italiani morirono di fame e di fatiche. Tanta era la disperazione che per tre volte di seguito chiedemmo alle autorità militari sovietiche di essere fucilati. Non voglio scendere in particolari per non dare altri dolori a tante mamme d'Italia, ma non posso non confermare gli episodi di cannibalismo, le scene sanguinarie che si ripetevano giorno per giorno, gli stenti delle lunghe marce di trasferimento.
Avv. Taddei: — È vero che nei campi si poteva celebrare la Messa e che fu perfino organizzato un Presepe nella ricorrenza del Natale?

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Roma, il presepe e la «mostra artistica»


P. Turla: — Per quanto mi riguarda, ho potuto celebrare la Messa soltanto una volta, durante tutta la prigionia. Fu nel campo di Susdal il 1° gennaio del 1944. Il Presepe, poi, è vero, fu fatto, ma dovemmo fare una domanda al comando russo mascherandolo sotto la definizione di «mostra artistica». È vero anche che i sovietici vennero a visitare il Presepe. Essi si rallegrarono con noi e, indicando il panorama nel quale si vedevano palmizi, capanne e grotte, ci chiesero se raffigurava Roma.

In silenzio i giudici si sono alzati e si sono ritirati in camera di consiglio. Sono le 9,45.
Il Tribunale rientra nell’aula alle 14,40.
Nel più profondo silenzio il presidente dott. Carpanzano si alza e legge il dispositivo della sentenza.

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Il dispositivo della sentenza


Visti gli articoli 479 e 482 del C. P. P. il Tribunale assolve gli imputati Luigi Avalli, Domenico Dal Toso, Ivo Emett, Giorgio Pittaluga, Ugo Graioni dal reato di diffamazione loro ascritto in ordine ai fatti specificati nei numeri 1 e 2 dell’opuscolo «Russia» essendo provata la verità dei fatti stessi, e dalle diffamazioni relative ai fatti specificati dai numeri 3 e 4 visualizza il documento
e dall'ultima pagina visualizza il documentodell’opuscolo perché il fatto non costituisce reato.
Condanna inoltre il querelante sen. Edoardo D'Onofrio al pagamento delle spese processuali.

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